Mario Draghi, presidente incaricato, e i tecnici in politica
Un "castigamatti"
al governo in Italia
FILIPPO CECCARELLI DA ROMA
Doveva arrivare, ed eccolo qua. I retroscena in Italia si sono ammutoliti. Una coltre di riservatezza va schermando le prime mosse del presidente incaricato, che se la sta prendendo tanto più comoda quanto più se lo può permettere. Si lavora di sguardi e di indizi: le rapide immagini delle consultazioni fanno vedere che Mario Draghi riceve i partiti avendo sul banco il "Facciario", la pubblicazione che la Camera dei deputati distribuisce a funzionari e commessi all’inizio della Legislatura per fargli riconoscere in volto i nuovi arrivati.
Ma quella sorta di antenato di Facebook sta lì a dire che l’uomo chiamato a fare il governo non conosce neanche i tratti fisici di quelli che dovranno dargli il via libera in Parlamento. Perché in quel fastoso Palazzo, Draghi è poco più di un estraneo di cui nemmeno si sa quale partito abbia votato, e già questo dice parecchio sul compito che l’aspetta, ma anche sui vantaggi rispetto a una classe politica iper-conosciuta, ma che ha fatto default.
Così, al di là della formale cortesia e di uno stile comunicativo che ritiene la freddezza delle istituzioni indispensabile in un Paese caldo (la lezione di Cavour, Giolitti, Andreotti, Napolitano) il presidente incaricato si configura come il classico castigamatti. È questa una figura ricorrente nella politica italiana, anche se forse converrà ricordare che "castigamatti" designava in origine il bastone con cui un tempo si riportava ordine nei manicomi. Ora, a ripensarci, la crisi di governo resta un atto di follia e il suo svolgimento conferma e anzi aggrava retrospettivamente la sensazione di un degrado psichico accentuato dalle circostanze epidemiche, economiche, sociali e in qualche misura anche morali. Ma se c’è qualcuno che può, su mandato del presidente della Repubblica, raddrizzare il sentiero della politica, ecco, come insegna la recente storia si tratta di un non-politico, un personaggio lontano dai giochi di Palazzo, ma che proprio a tali giochi è chiamato a mettere fine.
In questo senso, più che un prestigioso banchiere con una esperienza ultra quarantennale in Italia e più ancora all’estero, Draghi è un servitore dello Stato che ha affinato le sue competenze negli organismi della moneta e dell’alta finanza; la sua conoscenza dei sistemi complessi è strettamente collegata alla razionalità dei numeri, così come rispetto a un problema la ricerca di soluzioni si orienta sull’alternativa funzionale-disfunzionale.
Tutto questo, in via teorica, potrebbe assegnare a Draghi una valenza anch’essa pienamente politica e perfino superiore, nel senso che dal suo profilo ci si aspetta una logica finalizzata al bene comune o cosa pubblica che si voglia. E però, senza spingersi troppo in là, quel che è certo è che la sua chiamata risponde al bisogno conclamato di porre fine alle schermaglie, nell’odierna temperie particolarmente vistose e quasi sempre inconcludenti, alle quali tuttavia si appassionano milioni di italiani, salvo sentirsene di colpo disgustati. Ed è qui che, chiamati o meglio reclamati dai problemi non solo aperti ma talvolta nemmeno troppo bene individuati, sopraggiungono i "tecnici" - là dove le virgolette segnalano un’ambiguità di fondo. E comunque: Ciampi nel 1993; Dini nel 1995; Monti nel 2011. Esaurito più o meno il loro compito, due volte su tre si sono poi fatti un loro partitello, di trascurabile rilevanza storica e politica; mentre il solo Ciampi ha proseguito il suo corso nelle istituzioni diventando un magnifico presidente della Repubblica.
Anche a Draghi si prefigura un analogo destino, seppure con tempi molto più stretti. Nel frattempo in un modo o nell’altro sbriglierà la crisi. Il problema vero è il baratro che si apre fra la frigidità tecnocratica e il carnevale che per ragioni storiche da queste parti è sempre in agguato.
06.02.2021